A ridosso dell’estate si moltiplicano le pubblicità di integratori di varia natura che promettono effetti miracolosi sulla “stanchezza”. Con il caldo - com’è esperienza comune - le energie si affievoliscono e diventa più faticoso tenere il ritmo di altre fasi dell’anno. Anche perché - è opportuno ricordare - si arriva da un lungo periodo carico di impegni, lavoro, fatiche di varia natura, e un certo grado di stanchezza è comprensibile e legittimo. Eppure, a cominciare proprio dalle pubblicità da cui siamo bombardati, si parla della stanchezza come se fosse una specie di malattia. “ Soffri di stanchezza!? ” - è la domanda più ricorrente nei messaggi pubblicitari. E la risposta suggerita sta nell’assunzione di qualche tipo di sostanza integrativa per uscire da questa “ condizione pseudo-patologica ”. Questo tipo di “lettura” della stanchezza sta entrando prepotentemente anche nel senso comune, tanto che, pian piano, nell’immaginario collettivo, quando si accusa un po’ di fati
Psicofarmaci sì, psicofarmaci no. Da che parte stiamo? Per lungo tempo, in psicoterapia, la questione è stata posta in questi termini, quasi come se si trattasse di tifare per una squadra o per l’altra. In realtà oggi, fortunatamente, quasi tutti gli specialisti (psichiatri o psicoterapeuti che siano) hanno abbandonato le proprie “ortodossie” per convergere su una posizione che abbia a cuore esclusivamente il benessere del paziente e se ne faccia carico a 360 gradi. Bene, ma qual è il benessere del paziente? Quando e come è opportuno assumere psicofarmaci? Per orientarci su un tema così delicato e complesso è opportuno cominciare da alcuni dati, ben riassunti nel volume “Psicopillole – Per un uso etico e strategico dei farmaci” , scritto a quattro mani da Alberto Caputo , psichiatra e psicoterapeuta, e Roberta Milanese , psicologa e psicoterapeuta. Passiamo in rassegna i dati più significativi che lì vengono esposti: dal 1999 al 2013 le prescrizioni e le assunzioni di psico