In questo
nostro appuntamento odierno sfatiamo l’ennesimo luogo comune sulla vita di
coppia. Il senso comune ritiene che il segreto di una “buona coppia” sia
l’assenza, o quasi, di conflitti e una certa omogeneità di interessi,
disposizioni, opinioni, “valori”, gusti, che garantisce un terreno comune su
cui costruire un progetto di vita.
Si tratta
di un argomento su cui ci siamo già soffermati in un precedente articolo, del
maggio 2017, “Litigi e conflitti di coppia, istruzioni per l’uso”. In quella
sede avevamo argomentato la tesi secondo cui
il nemico più potente e subdolo
della coppia non è la conflittualità, bensì l’“esaurimento” della relazione per
mancanza di energie ed investimento reciproco. Laddove viene meno il
confronto, la forza propulsiva di mettersi continuamente in gioco, la progettualità,
l’arricchimento reciproco (e quindi anche lo scontro), non si ha più niente da
dire né da fare insieme. La comunanza di visioni è, quindi, sicuramente in
grado di ridurre la conflittualità nella coppia, ma non è necessariamente sinonimo
di solidità e vitalità; anzi!
Osservavamo
già in quell’intervento, infatti, che una
“coppia sana” non è quella che non confligge, bensì quella che sa come
configgere. E qui arriviamo al punto della questione di oggi. Come si fa, all’interno della coppia, ad
aprire conflitti senza farsi (troppo) male?
Ovviamente
siamo di fronte ad un tema vastissimo, su cui sono state scritte pagine e
pagine. In questo contesto ci limitiamo a focalizzare l’attenzione su un unico
aspetto, che mina alle basi la solidità sia personale che di coppia proprio
nella misura in cui inibisce il confronto: la
paura del conflitto.
Partiamo
da una constatazione indubitabile: qualsiasi sia la direzione in cui voltiamo
il nostro sguardo (che sia il luogo di lavoro, la famiglia, le amicizie, la
coppia, o anche le conoscenze più superficiali) c’è sempre un possibile
conflitto all’orizzonte. Prima o poi un ambito rispetto al quale siamo in
disaccordo con un nostro interlocutore, importante o meno che sia, si
verificherà. E il modo in cui porremo la questione, anzitutto con noi stessi,
sarà determinante per la sua risoluzione.
Girare la faccia dall’altra parte è il modo
migliore per condannarsi ad un lento e quasi impercettibile cammino di
indietreggiamento che porterà tutti a vivere un crescente disagio relazionale. Laddove c’è un punto di disallineamento è
fondamentale anzitutto vederlo con
chiarezza e secondariamente affrontarlo
senza troppa paura, ossia cercando di essere “conclusivi”.
La paura
del conflitto, infatti, agisce spesso in modo subdolo e invisibile. Il suo
effetto più diretto e chiaro è il cosiddetto “evitamento”: faccio finta che il problema non ci sia e così evito
la paura di affrontarlo. Ma la sua manifestazione più frequente e difficile da
smascherare è la modalità di porre l’oggetto del conflitto in modo che non
possa essere affrontato in modo chiaro. Ossia, esprimere il proprio disappunto
attraverso borbottii impotenti, frasi lasciate a metà, smorfie non articolate
in discorsi e argomentazioni, gesti scomposti che lasciano il tempo che trovano.
Tutti comportamenti che non si traducono
in indicazioni precise e “conclusive” circa ciò che, nella coppia come in
qualsiasi altro ambito, non funziona (dalle cose più semplici ai massimi
sistemi) e di cui è quindi opportuno discutere e farsi carico.
Detto in
altri termini, esiste un modo di evitare i problemi che consiste nel dirsi di
averli affrontati (attraverso “messaggi” più o meno impliciti e subliminali
mandati al proprio interlocutore), senza aver avuto però la forza di andare
fino in fondo e “chiudere” la questione con un confronto esplicito e un punto di
approdo univoco. In questo “pantano”
talvolta le coppie, così come le singole individualità, si perdono senza
riuscire a comprendere il perché.
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