Entriamo,
oggi, in un tema molto delicato e dibattuto. Useremo, dunque, tutta la prudenza
e, insieme, la solidità scientifica di cui siamo capaci per fare un po’ di
chiarezza. L’argomento che intendiamo affrontare può essere riassunto con la
seguente domanda: l’ansia e la
depressione sono “malattie”? E se sì, in che senso lo sono?
Come
abbiamo già ricordato in un precedente articolo, su un tema così complesso ed
articolato ci sono moltissime
prospettive ed opinioni, anche tra gli specialisti, ed ognuna, in qualche
misura, ha la sua ragion d’essere. Ma ci sono importanti distinzioni e
delimitazioni di campo da considerare per comprendere la natura del disagio
psichico. In questo piccolo intervento ci facciamo idealmente condurre da uno
dei maestri della psicoterapia contemporanea: Vittorio Guidano.
Iniziamo
con il dire che ansia e depressione, se considerate dal punto di vista delle
limitazioni che producono e del grado di disagio che comportano, sono da
considerare a tutti gli effetti “malattie”. Ne è testimonianza il fatto che
l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nel 2020, ossia l’anno
prossimo, la depressione sarà la seconda
causa di invalidità per malattia, subito dopo le malattie cardiovascolari.
È dunque chiaro che, sia sotto il profilo della sofferenza che comporta, sia
dell’impatto sociale, ansia e depressione sono patologie epidemiologicamente
molto significative. L’OMS stima, tra l’altro, che, nel 2020, una persona su sei soffrirà di questi
disturbi, con una probabilità di recidiva compresa in un range tra il 35% e
il 65%.
Detto
questo, dobbiamo capire come ci si
prende cura di malattie di questa natura, sicuramente differenti da
un’influenza o da una sciatalgia. Ossia, una volta che siamo in presenza di una
costellazione di sintomi che, nel suo complesso, si può indicare come
“depressione”, che cosa si fa e che cosa è opportuno fare?
Qui
seguiamo la pista indicata da Guidano. In tutto il suo percorso teorico,
Guidano ha sempre sottolineato la necessità di entrare nelle storie di vita individuali per capire insieme (e far
comprendere al paziente) quali sono le sue modalità di “lettura” e di
interpretazione della realtà e di sé stesso. Modalità dalle quali originano poi
“temi” più o meno sensibili (come la colpa, l’inadeguatezza, la paura
dell’abbandono, la difficoltà ad avvicinarsi emotivamente agli altri, e via
dicendo), e specifici modi di “stare male”. È cioè indispensabile entrare
direttamente nel modo unico, esclusivo, irriducibile in cui ciascuno sperimenta
le proprie emozioni e osservare che cosa, in una particolare fase di vita, ha
rotto un equilibrio che fino a quel momento aveva “retto”.
In questo senso l’utilizzo di un termine assoluto ed indifferenziato come “malattia” è
di poco aiuto, se non addirittura fuorviante, nella misura in cui non
permette la discriminazione della specificità con cui ognuno vive ciò che vive
nel modo in cui lo vive (scusate il gioco di parole). Citiamo direttamente
Guidano da “Il sé nel suo divenire” (pag. 57): “In quest’ottica, ad esempio, non avrebbe più molto senso parlare
dell’ansia come se fosse una categoria psicopatologica a sé stante e quindi
univoca per tutti. Come le altre
emozioni negative di interesse clinico, l’ansia, come tale, fa parte della
gamma di tonalità emotive con cui gli esseri umani esperiscono il loro mondo”. Allo
stesso modo, “Risulta evidente allora
come un episodio depressivo, lungi dall’essere qualcosa che dall’esterno si
abbatte su una persona come una febbre o una malattia, sia intrinsecamente
connesso al suo modo di assimilare l’esperienza, di valutarla e integrarla con
i dati passati, ossia con la coerenza del suo significato personale”.
In riferimento
alla spiegazione del disagio, e non alla sua mera descrizione, l’uso del
termine “malattia” per indicare importanti manifestazioni di difficoltà come
l’ansia e la depressione può dunque implicitamente suggerire una strada poco
produttiva: non c’è da aspettare che passi, come l’influenza, né basta
attenuarne i sintomi (con la tachipirina, restando sul nostro esempio). È invece opportuno prendersene cura
calandosi nell’assoluta unicità e specificità di cui è fatta ogni storia di
vita.
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