Proseguiamo oggi il filone dei “tranelli” che il senso comune ci tende,
quasi senza che ce ne accorgiamo. Si tratta di espressioni, indicazioni, “frasi fatte” - come dicevamo nel nostro
precedente intervento - che sembrano, in
prima battuta, assolutamente giuste e condivisibili, ma che nascondono
pericolose insidie.
Ci focalizziamo in particolare su
un’espressione tra le più frequenti in cui mi capita di imbattermi, soprattutto
nelle terapie di coppia, che suona grossomodo così: “Sono fatto in questo modo e devi prendermi per quello che sono!”. Il
sottile filo che sottende questa frase è un certo allontanamento dalle responsabilità e una scarsa disponibilità al cambiamento (consapevole o meno) con il
quale ci si imbatte abbastanza frequentemente nel corso della psicoterapia.
Proviamo, anche in questo caso,
ad analizzare più da vicino questa espressione per osservare meglio che cosa
non funziona. Ciò che salta immediatamente all’occhio è l’assoluta certezza di
un dato di fatto inconfutabile e immodificabile: le persone sono fatte in un
certo modo e non possono cambiare. C’è una diffusissima espressione del senso
comune che esemplifica con immediatezza questo concetto: “Chi nasce tondo non può morire quadrato”.
Ma è proprio così? Ci sono dati strutturali e assolutamente
immodificabili della persona ai quali ci si può solo adeguare o rassegnare? Qui
dobbiamo introdurre un elemento di flessibilità e discriminazione. Se
intendiamo la semplice e scontata osservazione secondo cui ognuno di noi ha
caratteristiche che denotano tratti molto profondi della personalità e della
costruzione individuale (frutto di un’intera storia di vita) la risposta non
può che essere “sì”, ma sul fatto che queste caratteristiche, anche le più profonde,
non siano modificabili, smussabili, padroneggiabili, la risposta è “no”. Nella
mia esperienza clinica mi è capitato di assistere al cambiamento di persone che
da estremamente chiuse e timide sono diventate addirittura abili conferenzieri,
o che da paurose e indecise hanno trovato il coraggio di farsi carico delle
proprie scelte e imboccare la propria strada (con tutti i rischi e i pericoli
del caso).
Se infatti alcuni “tratti” della persona sono talmente profondi da costituirne un
aspetto identitario (e quindi modificabile solo in parte), molti altri sono l’esito di paure,
insicurezze, confusione, esperienze traumatiche che non sono state mai
focalizzate e per questo sono sempre risultate inaffrontabili. Se ne sono
sempre e solo constatati gli esiti, senza arrivare a capirne la provenienza,
l’articolazione e “il funzionamento” nello specifico modo in cui arrivano a
orientare i comportamenti e le scelte.
Nella maggior parte dei casi ciò
che è in gioco, nel determinare problematiche relazionali ed emotive di varia
natura, non sono tratti profondi della personalità, ma specifiche difficoltà emotive che si sono strutturate e incancrenite
nella misura in cui non sono mai state analizzate a fondo ed affrontate.
L’imperativo “Devi prendermi per quello che sono!” è dunque indicativo di una
scarsa disponibilità al cambiamento e di una difficoltà a mettersi in gioco,
più che essere una “verità” relativa alla struttura della psiche umana.
Questo aspetto è centrale tanto
nel discorso di coppia quanto nella “dialettica individuale” attraverso cui
ciascuno “dialoga” con se stesso. Nella coppia, infatti, un imperativo di
questo tipo genera fatica nella possibilità di rapportarsi l’uno all’altro e
modificare quei comportamenti che non sono funzionali ad un’intesa a due; in un
percorso individuale l’ancoraggio all’idea secondo cui c’è poco o nessun
margine di cambiamento nel modo in cui “si è fatti” è un grosso ostacolo a
qualsiasi tipo di evoluzione.
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