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ACCONDISCENDENZA, FALSA AMICA DELLE RELAZIONI



C’è un aspetto, toccato nello scorso approfondimento, che ha suscitato interesse e sul quale vale la pena soffermarsi a riflettere. In senso lato potremmo definirlo in questi termini: la possibilità di chiedere, e addirittura pretendere, una vicinanza partecipe, attenta, carica di dedizione e cura da parte dei nostri interlocutori più significativi (amici, parenti stretti, compagni/e). Abbiamo infatti sostenuto che in qualsiasi tipo di relazione deve esserci un equilibrio, in termini di investimento emotivo, tra i protagonisti della relazione stessa, altrimenti si genereranno conflitti e incomprensioni in grado di mettere in discussione il rapporto nella sua interezza.
Ora cerchiamo di entrare più nel dettaglio di questo aspetto, anche perché si tratta di una considerazione parzialmente in contrasto con ciò che il senso comune prevede. Siamo cioè spesso portati a ritenere che l’accondiscendenza, ossia la propensione a venire incontro alle esigenze altrui, sia un valore in assoluto. Ed in effetti può esserlo, a condizione che con questo termine si intenda una certa elasticità e capacità di tenere in considerazione anche la prospettiva altrui, ma quando diventa l’assoluta perdita di vista del proprio orizzonte e un assoggettamento alle valutazioni altrui, assume i contorni di una pericolosa  “bomba relazionale” sempre pronta ad esplodere.
L’accondiscendenza non deve cioè essere confusa con l’elasticità o la disponibilità – queste sì virtuose “in assoluto”. Facciamo qualche esempio elementare per farci intendere. Se, tra amici, si sta scegliendo una meta per trascorrere una serata piacevole non è opportuno che io mi metta di traverso, ponendo una sorta di aut-aut, se non si va dove io desidero, però è assolutamente funzionale al mio benessere che io dica la mia e cerchi di portare il gruppo nella direzione che mi auspico. Non esprimere ciò che desidero e seguire la volontà altrui non mi porterà a raggiungere ciò che voglio, ciò che mi fa star bene. Allo stesso modo, se tra marito e moglie ci sono atteggiamenti che creano disagi e incomprensioni, è opportuno che li si affronti, senza “farseli andare bene” in virtù del cosiddetto “quieto vivere”. Sì perché quel “vivere” – a ben guardare – di “quieto” ha ben poco, se non la parvenza.
Come abbiamo già avuto modo di dire, la miglior tutela per la coppia - e per le relazioni in generale -  è aprire il conflitto, non sotterrarlo. Fare in modo che emerga ed esprima fino in fondo ciò che per la relazione può essere pericoloso. E’ solo in quel momento che la minaccia può essere vista, e quindi affrontata. Il che – ribadiamo – non significa fare la guerra su ogni quisquiglia. Significa semplicemente essere consapevoli della propria posizione e “giocarsela”, con tutta la disponibilità ed elasticità del caso. Disponibili, quindi; non accondiscendenti.
L’accondiscendenza, nella misura in cui istituisce un rapporto di subalternità, altera gli equilibri di valore (e di potere) nella relazione. E’ esperienza comune che colui il quale si fa andare bene tutto, non prende mai posizione, subisce le situazioni anziché padroneggiarle, perde progressivamente valore e rispetto all’interno del gruppo o della relazione; viene lentamente e impercettibilmente deprivato del suo ruolo decisionale, della considerazione e persino della legittimità di essere parte del gruppo. La sua posizione diventa scontata, ininfluente, superflua. La sua stessa identità perde di interesse.
Si arriva così al paradosso per cui l’accondiscendenza, quella modalità - sulla carta -  “amica” delle relazioni nella misura in cui tiene lontani i conflitti, in realtà è la più subdola delle nemiche, perché depaupera il rapporto, togliendogli il valore che ne costituisce il senso ultimo e più profondo.

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