Le emozioni non si giudicano. Ciò che provo, come lo sperimento, il
modo in cui gli eventi hanno suscitato e suscitano in me questa o quest’altra
reazione emotiva non può e non deve essere oggetto di giudizio.
Per non essere fraintesi, in
un’affermazione così lapidaria, è indispensabile chiarire bene ciò che
intendiamo. Anche perché il giudizio – è inutile negarlo – è ciò che
apparentemente ci guida nelle opinioni, nelle scelte e nei comportamenti della
quotidianità. Allora osserviamo bene il contesto in cui un’indicazione così
esplicita (“le emozioni non si giudicano”) ha senso che venga espressa.
Nello scorso intervento
argomentavamo il fatto che tra emozioni
e pensieri sono le prime a dettare legge, ossia che, con tutti i distinguo
e le cautele del caso, l’emotività nasce
dalla vita e non dalla sua ricostruzione in un contenuto razionale, e come
tale è più originaria, primitiva e “potente”. Le emozioni vengono prima dei
pensieri, rappresentano il modo in cui incontriamo il mondo (o meglio, sono
delle aspettative “incarnate” sul mondo), e l’aspetto cognitivo interviene in
un secondo momento per incorniciare e dare senso logico a ciò che l’emotività
ha già deciso. Nietzsche, in vario modo ripreso anche da Umberto Galimberti in campo
psicologico, ha dedicato ampie riflessioni al fatto che la razionalità può tutt’al più mettere ordine laddove l’emotività ha
già creato qualcosa. Il pensiero – dicevamo nello scorso intervento – è
un’arma spuntata anche rispetto alla possibilità di intervenire su ciò che proviamo:
per superare la mia paura dell’aeroplano, per fare un esempio, ha poca
efficacia conoscere le statistiche che dimostrano la sua quasi assoluta
sicurezza come mezzo di trasporto.
Oggi aggiungiamo un suggerimento
più pragmatico, quasi un’indicazione di metodo per avvicinarsi al benessere. Potrebbe
suonare grossomodo così: se cercare di
aiutarsi con la persuasione (ossia col pensiero) a cambiare ciò che si prova
non ha molta efficacia, giudicarlo, delegittimarlo o combatterlo può fare
addirittura danni.
Facciamo un esempio, per
intenderci. Ipotizziamo che la signora Giulia provi una profonda rabbia nei
confronti di sua madre per come si è sentita trattata nel corso di tutta la
vita. Ipotizziamo che, in quel rapporto, si sia sempre sentita poco ascoltata,
per nulla apprezzata, squalificata e addirittura rifiutata. Ipotizziamo anche
che la signora Giulia abbia ben in mente le occasioni, gli episodi, le circostanze
in cui ha sperimentato queste sensazioni, nel passato, quanto - in forma
diversa, in rapporto alla diversa età - nel presente. Ora, rispetto a
quell’universo emotivo, nato e cresciuto con lei, che racchiude un percorso di
vita con mamma, nessuno può dirle
“quella rabbia non la devi provare” semplicemente perché nessuno è passato
attraverso la sua storia e non può sapere come quel rapporto ha costruito la
sua identità.
Sul mondo emotivo è sempre opportuno sospendere il giudizio per cercare
di entrare in relazione e di capire l’altro. Ma questa operazione è ancor
più importante compierla su sé stessi. Spesso accade infatti che il peggior
giudice di sé stesso sia proprio colui che sperimenta emozioni spiacevoli,
soprattutto se orientate verso persone vicine. Ossia, nel nostro esempio, la
signora Giulia stessa, che cerca di reprimere, soffocare, nascondere in tutti i
modi ciò che prova, ingaggiando così una dolorosa
guerra civile interna tra ciò che effettivamente sperimenta e ciò che invece
dovrebbe provare in rapporto alle convenzioni, i dettami morali, il senso
comune. Quella rabbia, anziché giudicarla, è opportuno conoscerla,
osservarla, vederla da vicino in tutte le sue componenti, motivazioni, negli
episodi in cui ha preso forma e consistenza. Solo così sarà possibile
padroneggiarla e decidere che cosa farne, ossia scegliere se e come esprimerla.
Su quest’ultima parte, l’espressione di ciò che si prova, ossia i
comportamenti, il giudizio può ritrovare cittadinanza nel cosiddetto “gioco
delle opinioni”. Sui comportamenti si apre il balletto dei vari “avresti
dovuto…, avresti potuto…, forse sarebbe stato più saggio fare…”, eccetera
eccetera. Operazione legittima nella misura in cui riguarda una scelta, la
scelta di che cosa fare di ciò che si prova. Ma le emozioni (e non la loro
espressione, su cui è possibile in qualche misura decidere) non si possono
scegliere e quindi la categoria del giudizio è inappropriata.
Su ciò che ognuno di noi prova, ossia sulla parte più intima, profonda,
imperscrutabile e quasi indicibile della storia di vita che ciascuno di noi
incarna, è opportuno che il giudizio taccia.
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