In questi primi interventi
introduttivi rispetto a ciò che ritengo centrale e preliminare a qualsiasi
discorso psicologico, oggi affrontiamo una questione fondamentale tanto per la
psicologia come disciplina quanto per il suo effetto nella vita quotidiana: tra pensieri ed emozioni chi detta legge?
Ossia è il pensiero che orienta ciò che proviamo oppure è l’emotività che detta
legge nel nostro vissuto e quindi anche nei pensieri che ci troviamo a
inseguire?
La questione è di primissimo
piano nella misura in cui definisce anche la
nostra possibilità di intervento nei vissuti dove ci troviamo immersi e la
modalità con cui affrontare le paure che ci assalgono. Facciamo qualche
esempio. Se mi accorgo che oggi è una “giornata no” per motivi che non mi
risulta facile decifrare, è opportuno che inizi a pensare a cose piacevoli o a
quanto sono fortunato nella vita per questo e quest’altro motivo? Oppure, se ho
il terrore di salire sull’aeroplano per un’imperscrutabile ragione, mi può
aiutare leggere tutte le statistiche secondo cui l’aeroplano è uno dei mezzi di
trasporto più sicuri della terra? Detto in altri termini, se mi convinco che i miei stati emotivi non sono legittimi (dovrei
essere contento anziché rabbuiato, nel nostro primo esempio), o che le mie paure sono assolutamente
irrazionali e infondate (dovrei aver più paura a prendere l’automobile
tutte le mattine piuttosto che l’aeroplano una volta all’anno, nel secondo
esempio), riuscirò a cambiare ciò che
provo o a superare la mia paura?
Con tutte le precisazioni e i distinguo del caso, direi di no. Le
precisazioni stanno nel fatto che, ovviamente, i pensieri hanno un ruolo
nell’alimentare emozioni e stati d’animo. Se mi convinco che non riuscirò mai
nella vita a salire sull’aereo e che tutti i tentativi in questo senso saranno
inutili, certo non mi aiuto a superare la mia paura. Ma, in assoluto, la paura
di salire sull’aeroplano non viene certo da un pensiero, così come la tristezza
di una giornata malinconica non viene da qualcosa di razionale e controllabile
che posso dominare. Ossia, non si dà per
scelta. Tutt’al più potrò sforzarmi di non alimentarla con ulteriori
pensieri che danno corpo a quello stato emotivo, ma di più, col solo pensiero,
non posso fare.
E’ piuttosto cercando di capire a che cosa è legata una certa
tonalità emotiva che sto vivendo o che cosa dice di me una paura che mi tiene
in ostaggio da diverso tempo che potrò aiutarmi a superarla. Ovviamente non
si tratta di una questione semplice, anche perché – osservavamo nelle scorse
riflessioni – è necessaria una certa dimestichezza nel sapersi ascoltare e
osservare. Dobbiamo anzitutto guardarci in prossimità, in ciò che ci è accaduto
o che ci aspetta e che cosa ha toccato o tocca di noi, della nostra storia,
della nostra vita. Può essere sufficiente anche un aggettivo uscito male dalla
bocca di una persona cara, un piccolo fallimento, l’aspettativa su un evento in
cui è in gioco qualcosa di noi… a dare la tonalità emotiva di una giornata.
Insomma, il passaggio cruciale è sempre quello: intrecciare i micro o macro-eventi della nostra attualità con le grandi
tematiche della nostra vita e la sensibilità che abbiamo sviluppato nella
nostra storia.
Questa consapevolezza (del
primato del mondo emotivo su quello cognitivo) nell’Occidente ha una lunga
storia e tradizione. Già Nietzsche – per rimanere nella modernità - osservava
che tutta la conoscenza, collettiva prima ancora che individuale, è il tentativo di placare la paura. E Heidegger, nel suo capolavoro “Essere
e tempo”, argomentava che l’esistenza ha sempre una tonalità emotiva. O meglio,
con le sue parole, “L’esserci è sempre consegnato al sentimento della propria
situazione”. La tonalità emotiva precede
qualsiasi comprensione, è più originaria, e come tale “detta legge” – per
usare i nostri termini – su qualsiasi pensiero.
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