Dove si nasconde la salute? Dove
andare a cercare quel ben-essere che è il presupposto, anche nel nostro dire
quotidiano, delle condizioni della nostra tranquillità, serenità o, in ultima
istanza, felicità. Dobbiamo partire da qui il nostro percorso: che cosa
significa “stare bene”?
Il senso comune associa il termine “salute” anzitutto a una condizione
fisica. Salute è, primariamente, assenza di malattia, anzitutto fisica. Ed
è sicuramente così. Però non basta.
E’ esperienza comune, in particolari fasi di vita, l’essere “in salute” da un
punto di vista fisico, ma non essere in una condizione di ben-essere. Di
contro, nelle storie che quotidianamente intercettiamo nella nostra vita,
capita di raccogliere anche esperienze di sofferenza o limitazione fisica che
vengono vissute, da parte di chi le sperimenta, con un certo grado di
tranquillità, se non addirittura in assoluta serenità. La salute fisica non è
quindi condizione né necessaria né sufficiente allo “stare bene”.
Ben-essere, seguendo ancora una
volta il senso comune, vuol dire allora sperimentare
emozioni positive, essere in una particolare condizione in cui si vive uno
stato emotivo piacevole, ad esempio di soddisfazione professionale, di
equilibrio familiare, di armonia con se stessi e con gli altri. Ognuno, in
rapporto ai suoi “temi di vita”, maturati nella propria storia, troverà in
particolari condizioni il proprio ben-essere. Siamo qui di fronte a una verità
assolutamente condivisibile, che tutti ci sentiremmo di sottoscrivere. La
stessa Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute “uno stato di
completo benessere fisico, psichico e sociale”. E sono moltissime le ricerche
epidemiologiche degli ultimi anni che confermano il rapporto tra salute (anche
in senso strettamente “fisico”) e un certo tipo di fruizione culturale,
rapporti sociali, soddisfazione “spirituale”, espressione di sé.
La salute e il ben-essere c’entrano anche con l’andare a teatro, con il
coltivare relazioni di un certo tipo, con il trovare il proprio posto nel mondo,
con un certo uso del corpo e perfino del linguaggio.
Non trovo parole migliori per
definire questa prospettiva di quelle che ha utilizzato lo psicoterapeuta e
filosofo Umberto Galimberti in un passaggio de “La casa di Psiche” riferendosi
alla felicità, che noi possiamo
indicare come massima espressione del ben-essere: “La felicità non è il premio che
attende chi ha condotto una vita virtuosa, ma la felicità è nella conduzione di una vita virtuosa, nella capacità
di dar forma alla propria forza vitale, di espandere
la vita fin dove è possibile, secondo misura. La felicità è il “vivere
bene”, e la vita buona è il fine della vita. Non dunque una felicità come
soddisfazione del desiderio e neppure una felicità come premio alla virtù, ma
virtù essa stessa, come capacità di
governare sé stessi per la propria buona riuscita, perché questa è la
misura dell’uomo”.
E qui potremmo fermarci, in
questa preziosa indicazione inscritta in profondità nella cultura dell’antica
Grecia che fa parte di noi. Il ben-essere, potremmo dire, sta nell’espressione delle proprie energie
vitali, nella realizzazione delle proprie disposizioni, inclinazioni, desideri.
E tutto quello che ci porta in questa direzione contribuisce al nostro stare
bene.
Ma proviamo a farci un’ulteriore domanda: c’è una forma di ben-essere
possibile anche nelle avversità, nei momenti (tanti e inevitabili) in cui
la vita ci mette alla prova, quando è impossibile sperimentare uno stato
emotivo piacevole? Penso a un lutto, il fallimento di una relazione
significativa, un dramma familiare.
Qui ci viene in aiuto Vittorio Guidano, geniale esponente del
costruttivismo in psicoterapia. La sua indicazione suona grossomodo così:
conoscere in profondità lo stato emotivo che si sta vivendo, darsene ragione in
rapporto a ciò che è accaduto, padroneggiare
i propri “temi di vita” e la storia da cui si proviene vuol dire, in
qualche misura, dare un’altra “forma”
anche al dolore, alla malinconia, alla rabbia, alla paura e a tutto ciò che
ci fa star male. Il che non vuol dire non soffrire (condizione impossibile
nella vita), ma soffrire in modo diverso,
con maggior consapevolezza, mettendo insieme tutti i cocci della propria
esperienza e riconducendoli a sé, facendoli un po’ più “propri”, riconoscendoli
come modi personali – e dolenti – dell’essere nel mondo. Ed è forse il massimo
che possiamo fare, come individui inscritti nella “commedia umana”. “Secondo
misura”, come dice Galimberti.
Ecco, questo è il ben-essere
attorno al quale cerchiamo di lavorare insieme in questo nostro percorso
virtuale, alla ricerca di un modo per “diventare ciò che siamo”, facendo
riecheggiare le parole di Nietzsche.
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